L’ABRUZZO E GLI ARTISTI: 20 FISIONOMIE PITTORICHE A CONFRONTO
di Maria Cristina Ricciardi
Casoli Pinta è molto più che un Premio Biennale Nazionale di Pittura. E’ un progetto culturale originale e ben articolato, nato diciotto anni fa, il primo fra tutti quelli che oggi regalano all’Abruzzo spettacolari paesi dipinti. Il delizioso borgo di Casoli di Atri, con un affaccio che spazia dalle cime del Gran Sasso al Mar Adriatico, si è trasformato, nel tempo, in un Museo “a cielo aperto”, conosciuto in tutto il mondo, attraverso opere di grande formato, realizzate da importanti artisti di panorama nazionale, collocate sulle pareti esterne delle case. L’iniziativa, promossa dall’Associazione culturale Castellum Vetus si fonda sul convincimento che l’Arte meriti di essere portata fra la gente, fra le strade e “respirata” insieme all’aria, nella quotidianità, affinché passando fra gli edifici del paese, i nostri occhi si possano “appoggiare” su qualcosa di bello e familiare, proprio come accade quando ci troviamo fra le pareti delle nostre abitazioni. Perché di quadri si tratta. Veri e propri quadri, come se il borgo di Casoli di Atri fosse veramente il salotto di tutti! E allora, ne beneficia la conoscenza, la bellezza, il piacere dello sguardo, apertura ad un passaggio che arriva diretto all’animo umano. Ne beneficia la speranza di un mondo migliore che non va cercato, pensato o trasmesso senza l’Arte, la più straordinaria chiave di lettura per comprendere l’essenza del nostro esistere. Questa V Edizione del Premio, aggiunge una significativa particolarità, quella di voler offrire al pubblico, attraverso alcune recenti opere molto rappresentative, un piccolo ma sentito e doveroso omaggio alla memoria del maestro abruzzese Gaetano Memmo, vincitore della III Edizione di Casoli Pinta, recentemente scomparso. E siccome un grande artista non scompare mai, attraverso questa esposizione, nata in collaborazione con il figlio, l’avvocato Emilio Memmo, che ringraziamo, vogliamo ricordare, attraverso la personalità pittorica di Gaetano Memmo, la sua meravigliosa lezione, ovvero la capacità dell’Arte più grande di essere immortale, di parlare e di trasmettere emozioni, aldilà del tempo. Il Premio Biennale Nazionale di Pittura Murale Casoli Pinta, ospitato nella storica cornice del Palazzo Ducale di Atri, promosso dall’Associazione Castellum Vetus di Casoli di Atri, presieduta dal dr. Roberto Topazio, con il Patrocinio del Comune di Atri e della Fondazione Tercas, inaugura la sua V Edizione, a cura di Maria Cristina Ricciardi. Il Premio, si avvale della partecipazione di 20 artisti legati da un comune denominatore: essere nati o operanti in Abruzzo. Si tratta, dunque, di una edizione speciale del Premio, interamente dedicata ad artisti connessi alla nostra Regione, un omaggio al loro lavoro, alla loro ricerca. E’ questo il caso del pittore Elio Torrieri che da oltre quaranta anni vive e lavora in Piemonte o quello inverso di Miriam Salvalai, nata nel piacentino e residente da molti anni a Giulianova, di Rita Ippaso, nata a Trapani, che divide la sua vita tra Chieti e Pescara, o della Chiaranzelli nata a Roma ma operante in provincia de L’Aquila, caso analogo a quello di Elisabetta Spiga, nata a Gaeta, che però vive e lavora a Pescara. E poi ci sono artisti nati in Abruzzo e qui rimasti, a volte cambiando città, come Stefano Ianni che dopo il terremoto aquilano si è trasferito a Montesilvano, in provincia di Pescara. La loro opera, di grande formato, fa spicco sulle scabre pareti delle Cisterne romane del Palazzo dei Duchi d’ Acquaviva, mentre una Giuria di esperti, presieduta dal Sindaco di Atri, dr. Gabriele Astolfi, dal Presidente dell’Associazione culturale promotrice del Premio Biennale, dr. Roberto Topazio, dalla sottoscritta e da Tonino Bosica, Direttore organizzativo del Premio, ha valutato, non senza difficoltà, quale fosse l’opera da premiare. Secondo il Regolamento, Il dipinto prescelto, entra nella Collezione d’arte di Casoli di Atri e, in breve tempo, viene trasposto, dal suo artefice, in un quadro di grande formato collocato su una parete di Caso-li di Atri, costituendo così il 54° dipinto murale presente nel suggestivo borgo teramano. In questo particolarissimo Museo a cielo aperto, fanno spicco, sui muri delle case, opere di affermati artisti fra cui: De Micheli, Madiai, Seveso, Velasco, Aprea, Memmo, Falconi, Cargiolli e molti altri, eseguite a partire dal 1996, con una programmazione annuale, divenuta successivamente biennale, che ha riscosso ampi consensi di critica e di pubblico. Sulla coper-tina del catalogo che accompagna la manifestazione, è presente il dipinto La Maschera, dell’artista marchigiana Maria Micozzi, vincitrice nel 2012 della IV edizione di Casoli Pinta. Natura e astrazione convivono nell’opera di Lino Alviani in una sintesi molto personale, una sorta di diario privato con una sua lirica che tocca la nostra sensibilità, laddove qualcosa è detto e qualcosa e taciuto. Brani visivi, citazioni mnemoniche che appartengono all’alfabeto dell’artista, ad un universo di malcelata malinconia che ci pervade e ci conquista. L’opera di Chiara Chiaranzelli offre una immagine che interroga con intelligenza il senso della nostra appartenenza, tra trascorse consapevolezze e contemporanee cognizioni: un piccolo gregge collocato su di un piano che cita il motivo decorativo della facciata di Santa Maria di Colle-maggio, rappresenta il cosciente omaggio al sentimento della nostra storia passata e alle vitti-me, nuovi agnelli sacrificali, di recenti consumate avidità. Il paesaggio marino di Antonio Civitarese, che tanto sarebbe piaciuto ai discepoli di Gauguin o all’ambiente espressionista tedesco, è essenzialmente un luogo dell’interiorità, dove gli spazi non corrispondono agli sguardi retinici ma all’emozione del sogno e dell’immaginazione affidati alla consapevole uso di colori complementari, di toni azzurri e arancioni, di armonie che sembrano raggiungibili solo da un immaginario distante dalle nostre ansie quotidiane. Il dipinto ad olio di Ileana Colazzilli, anch’essa opera di grande attualità, richiama la nostra riflessione sul mondo dell’infanzia, su ciò che i bambini vedono e sentono anche quando pensiamo che non odano. Come dire che in questa società si parla molto di bambini ma si comunica poco con loro, prestando scarsa attenzione all’ascolto della loro infanzia, a tutto quello che essi recepiscono dal mondo degli adulti. L’efficacia visiva della comunicazione artistica di Giancarlo Costanzo è sempre molto forte. In una sola immagine egli riesce a condensare una esperienza composita e articolata, il significato del suo esistere come uomo e come artista: il blu del cielo e del mare torna a farsi colore in un precipitato di materia cromatica, sciolta come musica, liquida come il suono delle parole che accompagnano da sempre le sue visioni.Grafie convulse nell’opera di Paolo De Felice, di segni incisi nella materia del colore, alfabeto impossibile che si fa incandescente perché ancora brucia di recenti e dolorose esperienze, e restituisce il sentimento convulso dello straniamento, la ferita che nasce dall’erosione che disgrega, corrode e dona un nuovo assetto alle cose. Dal sentimento dell’assenza di confini, in una terra di nessuno, da una introiettata immensità, prende forma e vita la condizione di silenzio, che Alfredo Di Bacco, con sapiente visionarietà, mette in scena, lasciandoci con le nostre domande, partecipi delle sue proiezioni. Due giovani donne legate dal filo rosso dei propri gomitoli, nel gesto eterno che le accomuna in una dimensione spazio-temporale inaccessibile. Deliberatamente astratta è l’opera di Dora Di Giovannantonio, perché priva di ogni riferimento alla realtà visibile, una griglia di partiture campite da toni verdi, di blu e di viola, profilate da linee pesanti. Un tracciato irregolare, di piccole anomalie, laddove gli spazi differiscono sempre fra loro. L’irripetibile nella similitudine: similitudine nella diversità e diversità nella similitudine. La natura per Sandro Lucio Giardinelli è una esplosione di fiori, che riempiono l’intero spazio della tela, vibrante di una energia di vangoghiana memoria, laddove pare quasi poterne coglierne il profumo, perché tutto è albero, tutto è giardino di fiori rosa bellissimi. Una piccola porzione di paradiso che non può non incantarci. Allora, che altro desiderare? Stefano Ianni è un artista che continua a sorprenderci con la sua ricerca sperimentale che investe la materia, la forma, il colore. E’ questo il caso delle sue opere più recenti con composizioni di pesci, come la grande seppia costretta nella perimetria del supporto, nella sua dimensione oggettuale a metà tra la natura e l’artificio, tra un tempo reale ed uno di plastica. Con Rita Ippaso siamo di fronte ad una pittura che esclude il gesto rapido, la nozione della casualità. Tutto è pensato, sedimentato, riflettute, con rigore, nel necessario distacco che l’artista imprime ai propri ricordi ed alle cose vedute, tra gialli acidi, azzurri intensi e vibranti toni corallo, perché ciò che entra nel quadro è già altra storia, con una vita sua, sintesi di un equilibrio raggiunto, non senza fatica. Vladimiro Lilla si sofferma sul concetto di pittura come proiezione di piani simultanei, sovrapposizione accidentale di appunti visivi importati dalla della realtà. La sua arte non vuole generare illusioni ma ribaltare sulla tela dei punti di vista connessi fra loro: immagini sfumate, brani materici, sagome stampigliate di lettere e numeri, in una sorta di gioco che documenta l’impossibilità di una verità assoluta. Di versante analogo, Antonio Antonio Angelo Lori ci regala una efficace sintesi concettuale della forza sacrale che vive dentro la pittura attraverso un’omaggio emblematico all’arte di Leonardo, al mistero della creazione, all’energia dell’ingegno che sa comunicare, in ogni epoca e luogo, e coinvolgere emozionalmente, non rinunciando alla forza dell’immagine che è forma, sostanza, colore, parola scritta, in un processo artistico totalmente immerso dentro la visione. L’opera del duo artistico Lupo&Asso è dedicata al tema, attuale e tragico, connesso all’emergenza dei migranti del mare che dalle coste africane nei quotidiani sbarchi sulla costa italiana ed alle non facili emergenze relative ai migranti del mare. E’ un’opera dedicata agli uomini, alle donne e a tutti i bambini che fuggono dalle guerre, dalle persecuzioni e dalle carestie viaggiando su insicuri barconi verso una speranza che è lontana almeno quanto la terra da raggiungere. L’opera presentata da Stefano Lustri, artista da sempre interessato al carattere comunicativo dell’immagine, è un dipinto importante all’interno del suo percorso di pittore figurativo affascinato dalla dimensione iperrealista, da una ricerca che guarda agli spazi della realtà quotidiana ed impiega attenzione nella resa del dettaglio, non senza una punta di ironia, figlia dell’estetica Pop degli anni Sessanta, sui temi del consumismo attuale. Marco Pace presenta l’immagine di una giovane donna colta in una atmosfera soffusa e rarefatta, resa con un effetto di vaporoso sfumato che ne dissolve i contorni creando un cli-ma di mistero, di presenza riflessa percepita tra la realtà e il sogno, proiezione di un ricordo o semplice pensiero. L’alfabeto visivo espresso dalla pittura di Claudio Pepe, di squillante impatto cromatico, guarda al carattere di essenziale primitività propria dell’esperienza figurativa che nasce dal graffitismo underground, lasciando affiorare l’immediatezza del segno come testimonianza di esistenza e di libertà espressiva, mentre inusuali e audaci si pongono i rapporti associativi tra le scritte e le figure, in un alfabeto hip-hop ironico e vivace. La riconoscibilità di Miriam Salvalai passa attraverso le cime marinare, gli azzurri sfondi dell’adriatico. Oggi la sua ricerca ha intrapreso nuove direzioni ma questi temi restano forti nel suo percorso, negli intrecci dei cordami ritorti e tesi di velieri, laddove pare di sentire il profumo del mare Adriatico, l’odore di salsedine, la stridula voce di un gabbiano. Elisabetta Spiga non rinuncia all’immagine, rivisitandola in una figurazione molto personale che si avvale sia di un’esperienza informale attenta agli esiti della materia, alle paste alte, alle sgocciolature, sia a quelli di una ricerca cromatica squillante che le deriva dall’impatto visivo della comunicazione Pop. Punti di ispirazione rimescolati dalla sua consapevolezza creativa che è totale, umana ed artistica. Elio Torrieri espone un dipinto che appartiene ad un ultimo ed importante ciclo pittorico esposto in autorevoli occasioni: stupefacenti fiori che vivono solo nell’artificio della pittura, non imitano nulla e magnificano la dimensione pittorica. Fiori che paiono esplodere come stupefacenti fuochi d’artificio in una notte di festa d’estate, meraviglioso spettacolo che si compie sotto i nostri occhi. Venti artisti, dunque, molto diversi tra loro, nei linguaggi e nelle finalità di ricerca. Legati da un unico grande amore che è la follia dell’arte, la bellezza dell’idea pittorica, la forza che coinvolge chi guarda, si ferma, riflette. Temi diversi che muovono da qualcosa che, da lontano o da vicino, sembra avere a che fare con l’Abruzzo, con i colori liquidi e azzurri del mare, con i toni verdi e rocciosi delle sue montagne, con il sentimento della Storia e con le nostre quotidianità. Uno straordinario omaggio all’arte che vive e viaggia dentro e fuori dalla nostra terra, dentro e fuori da noi.
2012 – CASOLI PINTA DALL’ARTE UNA GRANDE SPERANZA
di Maria Cristina Ricciardi
Casoli Pinta è molto più che un Premio Biennale di Pittura. E’ un progetto culturale entusiasmante ed articolato, promosso dall’Associazione Culturale Castellum Vetus, nato sedici anni fa e dunque, il primo fra tutti quelli che oggi regalano all’Abruzzo spettacolari paesi dipinti, come Azziano di Tossicia, Treglio, Cepagatti, Castel del Monte. Far camminare nel tempo una così grande e bella idea, quale quella di trasformare il magnifico borgo di Casoli di Atri, che si erge su un paesaggio che spazia dalle cime del Gran Sasso al Mar Adriatico, in un Museo “a cielo aperto”, conosciuto in tutto il mondo, con opere di grande formato, realizzate da importanti artisti di panorama nazionale, è fatto che necessita per davvero di solide gambe, quali i necessari supporti offerti nel corso degli anni da chi ha sostenuto questa manifestazione e, soprattutto, come ricorda, in un bel volume edito nel 2002, l’Assessore alla Cultura del Comune di Atri Domenico Felicione, allora Presidente dell’Associazione promotrice, il fatto che Gasoli Finta abbia trovato, sin dal suo esordio, la qualità indispensabile della forza compartecipe di tutti i compaesani, la ricchezza della loro coesione ed il calore dimostrato verso questa iniziativa, che da subito hanno sentito “propria”, parimenti all’ l’amore per la propria terra. Perché ad una comunità – e la gente d’Abruzzo è gente fiera – non si può imporre nulla dall’alto, se non esiste in origine il principio della diretta partecipazione. E so che la gente di Casoli di Atri è stata meravigliosa e si è fatta in quattro per ospitare gli artisti e condividerne il lavoro. Che cosa bella portare l’Arte — da scrivere con la “A’ grande — fra la gente, fra le strade e le case, dove la respiri, la vedi e la vivi nella quotidianità, allorquando, passando fra gli edifici del paese, gli occhi vi si “appoggiano”, proprio come accade quando ci troviamo fra le pareti delle nostre abitazioni. Perché di quadri si tratta e non di dipinti murali o dipinti ad affresco, come nelle località precedentemente citate. Veri e propri quadri, come se il borgo di Casoli di Atri fosse veramente il salotto di tutti! E allora, ne beneficia la conoscenza, la bellezza, il piacere dello sguardo, apertura ad un passaggio che arriva diretto — come un treno — all’animo umano, e credo che se vogliamo “rinascere” da questi tempi di crisi e di cronache da brivido, sperare la sostenibilità di un mondo diverso, non possiamo cercarlo senza l’Arte, né pensarlo, né trasmetterlo perché l’arte sarà sempre la più straordinaria chiave di lettura per leggere l’essenza del nostro esistere. Oltre ai grandi dipinti collocati sulle facciate delle case, Il Premio Casoli Pinta ha contribuito a costituire una importante Collezione di opere donate dagli artisti, un corpus molto articolato, che presto sarà raccolto in un volume e presentato al pubblico. Dal 2003 la manifestazione si è trasformata in Premio Biennale Nazionale di Pittura Murale. Ci sono state tre magnifiche edizioni che hanno ulteriormente arricchito il percorso dei muri dipinti nel borgo, che oggi conta oltre 50 lavori. A queste, nel 2009 sarebbe dovuta seguita la IV Edizione del Premio, non più tenuta a causa del lutto generale che il grave sisma del 6 aprile ha segnato nella storia della nostra comunità regionale. Oggi si riparte. E, ringraziando l’Associazione Culturale Castellum Vetus, nella persona del suo Presidente, la signora Mariantonietta Carulli, presento con orgoglio i 25 artisti che connotano questa IV Edizione, scelti congiuntamente all’amico Tonino Bosica, membro della Commissione inviti e premiazioni, operatore culturale tra i più stimati che qualificano il nostro territorio, motore insostituibile di questa Rassegna. Per prima cosa voglio dire che esiste un valore d’insieme che lega gli artisti invitati, tutti professionisti molto seri ed impegnati che, pur nella differenza dei linguaggi espressivi, sentono di condividere il valore autentico di una comunicazione fondata sulla profonda conoscenza del proprio mestiere, sulla coscienza di una condizione che li investe e li rappresenta a trecentosessanta gradi. Inventore di straordinarie atmosfere pittoriche, di grande seduzione. Luca Bellandi sa coniugare la sua attitudine alla figura, alla dimensione mai banale del mistero e la sua intima vocazione alle soluzioni visive tutte mentali, alla dimensione fisica del gesto pittorico che si compie e si realizza nello spazio fisico della tela, attraverso pennellate vivaci e rapide, sgocciolature che percorrono i vuoti del non finito, nei toni fotografici di una vecchia stampa in bianco e nero, virata al seppia, regalandoci una costruzione particolarissima che coincide con il sentimento dell’ immensità, riassunta allegoricamente nella figura indecifrabile e solitaria del “passeggero”, nella spazialità vasta che corre lontano fino al basso orizzonte, sotto un cielo che è un fiume in piena che sembra trascinarci lontano dal mondo. La pittura su tavola di Claudio Benghi, dai colori pacati e caldi, risponde ad una visione delicata e poetica, nella sua dimensione onirica e fiabesca, affidata ad un gioco impaginativo di elegante equilibrio e di sensibile musicalità, distante da ogni clamore, da ogni eccesso descrittivo. Una pittura attenta e misurata, in cui garbate figure si muovono in mondo di sogno, che ha il sapore di un calibrato racconto visionario e di una perduta innocenza, invitandoci a tornare ad esplorare con il cuore a comprendere la poesia che si cela dentro le piccole storie, nelle parentesi della nostra quotidianità. Così il suo personaggio appeso ad un sottilissimo filo, appare come un attore sul palcoscenico che vola fintanto che è retto, fidandosi di un gancio e un po’ rassegnato. Ma chi regge il filo? Un’ altra meravigliosa capacità visionaria è quella espressa da Cesare Borsacchi, dominata dal colore che veicola l’alta qualità della luce e da un forte interesse verso quegli elementi della natura che egli cala in un’atmosfera lunare in spazi di pura immaginazione. Così nell’opera presentata, in cui lascia convivere la risoluzione astratta e quella figurativa. Qui l’occhio e la luna trovano un’antica corrispondenza, un’ antico gioco che richiama l’anima e pone l’accento sulla conoscenza riflessiva: un grande omaggio all’universo femminile, trasformando lo spazio della tela in quello immensamente più vasto che va dal dipinto alla dimensione profonda del nostro esistere. In Gabriella Capodiferro. ogni dipinto si pone come una realizzazione complessa ed articolata, mai di sola superficie. Una indagine speculativa che interessa tanto la “pelle” del dipinto quanto le sue viscere più profonde, attraverso un linguaggio pittorico che sa costruire e decostruire nei continui bilanciamenti di difficili equilibri che il quadro richiede nella crescita quasi “organica” dei suoi passaggi progressivi. Il profilo lontano e discreto di un borgo arroccato è un accenno iconografico a cui spetta il ruolo di convivere con la dimensione materica del colore, che divampa, affiora dall’indistinto, dalla falsa quiete dell’incoscienza, affermando il suo posto dal magma della terra scura. El Gato Chimney ci introduce, con grande efficacia, in un mondo dominato dall’accostamento incongruo, dal colore antinaturalistico, da fisionomie che solo all’apparenza possono dimostrarsi familiari. Un universo onirico che ricorda molto la dimensione enigmistica del rebus, il fascino destabilizzante di curiose e impossibili convivenze di immagini e lettere, pur nel rigore pittorico della precisione del segno. L’effetto di shock, anche in questo caso, richiama la nostra attenzione sulla necessità di liberarci dai condizionamenti della ragione, che non è un ottica inquietante ma positiva perché la realtà interiore è condizione importante della dimensione poetica. Pittrice giovanissima, poco più che ventenne, Alessandra De Sanctis. guarda all’immagine femminile quasi come un’ apparizione, un riflesso fantasmagorico e lattiginoso, contro un fondo indistinto dove ritorna, quasi come un’ossessione, il tema della sedia, forse lontano omaggio ai padri della pittura moderna, Van Gogh e Gauguin, da parte di chi crede ancora nel valore comunicativo del mezzo tecnico della pittura ad olio, ma anche oggetto, facile da spostare, che invita alla sosta, richiama l’idea della riflessione: una sedia per pensare, per difendere sé stessa, attraverso la forza dell’intelletto e dello spirito. Gli attuali dipinti di Bruno Di Pietro si qualificano come una sorprendente stagione in cui l’artista affronta una importante riflessione sul rapporto tra il dato del paesaggio e quello di un cosmo iperspazialistico: frontiera tra la memoria delle cose e la coscienza del presente. Così le visioni boschive di Bruno Di Pietro, fatte di materici alberi nudi, con le linee serrate dei tronchi a ritmare la composizione, bianchi e calcificati, quasi dei fantasmi rievocati dalla sua stessa memoria. Al centro del suo trittico pulsa, come un cuore vivo e palpitante, il magma incandescente e convulso della materia, fibrillante nei grumi aggettanti di vivaci pigmenti, che fermano lo strumento dell’artista, fissandolo nell’atto della Creazione. La dimensione naturale ed umana di Gabriella Fabbri muove da una autentica sensibilità cosmica che si attua nel rigore del metodo scientifico-matematico. Nei suoi Microcosmi, la variabile relazionale è il colore che rappresenta la dimensione del macro. Il colore è forza energetica che determina estensioni geometriche che sono vere e proprie strutture di energia, dove ogni singola tela diviene portatrice di una consapevolezza legata al senso dell’appartenenza e della condivisione. La costante è la forma, individuata nel quadrato, simbolo di stabilità e dunque della ragione, simbolo dell’uomo come immagine riflessa dell’universo creato, contrapposto al caos primordiale del non-creato, che abita il mistero di quello spazio nero, da cui tutto e niente potrebbe essere. Domenico Gabbia, ci incanta con le sue piccole storie, delicatissime orme di una sensibilità che registra attimi della memoria: l’infanzia, il gioco, quali proiezioni dell’età dell’innocenza, tracce come segni sul muro, disegnini sul quaderno di scuola, fatti in un momento di torpore, piccoli automatismi che lasciano affiorare frammenti di episodi. Al centro, l’impianto compositivo è dominato da un grande albero che racchiude tutti i pensieri, rimando ai tempi diversi della vita, il passato, il presente ed il futuro, con le radici che vanno a cercare la terra, il fusto eretto e la sua grande chioma, quasi un sole che si apre davanti ad i nostri occhi, mentre tutt’intorno le piccole storie si rincorrono, come 1′ immagine di un carillon. Luciano Lupoletti è un artista molto versatile, inventore di straordinarie piccole scenografie in cui nulla è mai di troppo, minimali ed efficaci nel rispondere agli obiettivi delle sue comunicazioni che spesso toccano tematica di scottante attualità sociale. Il carattere dei suoi lavori è quello di una narrazione che non cerca il narrato ma che indaga nuove parole per descrivere le cose che vanno dette, quello che si impone come il “suo” racconto. Così una piccola valigia in un grande mare accompagnato da didascalia – quasi per essere proprio certi che di acqua si tratti – viaggio verso la speranza di una vita migliore o semplice illusione dentro un mare dipinto. Giovanni Lorenzetti incarna il concetto della sacralità dell’immagine che non è tale solo per il tema trattato ma per quel mistero che l’uomo porta dentro di sé e che l’artista, colto e raffinato, traduce in una atmosfera pittorica immersa in un colore che sposa i toni caldi ed ambrati del miele. Uno scorcio di cielo, un riflesso sul vetro, sono le quinte ideali di un discorso, tra la realtà e l’apparenze delle cose, che si incentra sul bel viso di una giovane donna, dall’abito scollato, affacciata ad un davanzale. Con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, mostra un volto enigmatico e bello, allegoria di un incanto fuggevole o 1′ ingannevole sorriso di una quiete che è preludio al cambiamento. Lo sguardo della fanciulla, pacato e sensuale ad un tempo, si fa interprete del sentimento dell’ attesa che è vivo in ogni essere umano. La dimensione pittorica di Wilma Maiocco, afferma il sentimento di dinamiche cosmiche che rincorrono la morfologia circolare delle sue visioni che ci trasportano in spazi di fluida ed instabile prospettiva, tanto affine alla disinvoltura morbida del ritmo musicale quanto ai principi rutilanti di un’ armonia universale che tutto sembra avvolgere e stravolgere, pari al ritmo di una danza. Ed ecco le sue prospettive rotatorie ed aeree che sembrano abbracciare ogni cosa: antichi borghi con i dedali di viuzze che si snodano tra le case di pietra, liquidi paesaggi pronti, come gomitoli, a farsi e disfarsi. Borghi antichi come spazi illusori di un tempo inteso come eterno ritorno, senza una fine, senza un punto d’arrivo, sostanziato dall’inarrestabile divenire della circolarità della vita. Maria Micozzi è un’artista estremamente interessante e profonda. Sul piano iconografico crede nel valore dell”immagine, nella difficoltà della sua costruzione, a cui però non rinuncia, ed è degna erede della migliore tradizione pittorica italiana neofigurativa, per intenderci, quella magnifica generazione che va da Sughi a Vespignani, da Attardi a Calabria, straordinari pittori che ci hanno insegnato che la realtà è un fatto complesso e ben diverso dalla sua apparenza; sul piano iconologico ci mostra che il necessario riscatto all’oltraggio deve passare attraverso una nuova coscienza del mondo in cui “comprendere” non significa “capire”, laddove la complessità delle cause coincide con la complessità dell’essere. Tutto il lavoro di Gabi Minedi è sintesi straordinaria tra un’ attività immaginativa fuori dal comune, ed il rigore profondo con cui — da pittrice – vive l’impegno di un’esperienza tecnica che appartiene alla tradizione pittorica italiana, come nell’ alta qualità raggiunta delle sue tempere all’uovo. Perché, al di la delle facili apparenze, l’arte per lei non è affatto un gioco. Di qui la materia viva e bella dei suoi colori a cui si accompagna la pulizia formale di una linea che può definire la figura o divenire scritta o semplice segno grafico. Incontrare i suoi personaggi significa comprendere che non provengono da mondi lontani. Vivono come noi, sono creature oppresse dal vivere quotidiano, guerrieri, viaggiatori solitari dai destini vagabondi, nella difficoltosa necessità di controbattere una qualche offesa morale, di guadagnarsi una possibile destinazione. La prospettiva di ricerca di Ciro Palladino, si orienta verso linee linguistiche di “primitivismo concettuale- che esplorano la necessità di una nuova immagine pittorica, che è principalmente riconquista intellettuale dei significati, antidoto al depotenziamento contemporaneo del mondo occidentale. Quando la luce è assorbita del tutto, un corpo ci appare nero e come il sub che dal profondo marino riemerge in superficie, ancora prima di essere fuori dall’acqua, e ne intravvede il bagliore, l’artista sa che c’è una soglia tra il buio e la luce che è lo spazio siderale dove la vita si definisce. Dentro questo spazio di frontiera, si materializzano le sue forme, figure, oggetti, simboli che rispondono alla necessità di una nuova spiritualità. La ricerca materica di Ivano Pardi si muove nella dimensione di una pittura di matrice informale che fonda nell’universo degli elementi primordiali le ragioni della propria complessa identità artistica. Il nucleo di energia pura che è protagonista del suo lavoro si precisa nella qualità di un magma torbido ed incandescente di accensioni di rossi squillanti, in una geografia primitiva di segni arcaici e di progressive fenditure. Drammaticamente attuale nei segnali che la terra ci comunica dalle profondità del suo essere, corre il richiamo ad una coscienza del mondo che urge porre alla nostra attenzione. L’esercizio artistico e l’esperienza della materia che il pittore mette a nostra disposizione ci indirizza a questa utile riflessione. Emilio Patrizio ricorre ad una figurazione molto particolare, a volte affidata al carattere di un solo colore che ne diviene elemento fondante e caratterizzante. Fotografo, pittore e grafico ferma l’inquadratura del soggetto e lo definisce con una linea che guida tutta la rappresentazione: una figura femminile con cane, criptico omaggio alla dama leonardesca con ermellino, quasi a volerci ricordare che la realtà è doppia, e che il visibile e l’invisibile convivono dentro il nostro sguardo. Chi è dunque la sua dama se non la pittura stessa che permette di riconoscere il senso della complessità del reale più di mille parole? Le iconografie di Augusto Pelliccione, ci guidano dentro un mondo di sapiente astrazione, che vive lo specifico di certi tratti formali e certi impianti cromatici che connotano da sempre il lessico dell’artista, marcandone la decisa riconoscibilità. Di qui il senso di forte sospensione atmosferica, nella totale assolutezza dello spazio metafisico dove la contestualizzazione, ridotta a pochi elementi essenziali, parla la lingua rarefatta di un paesaggio che è già ricondotto all’esperienza interiore. Con un particolare utilizzo di sintesi formale e cromatica, che riconduce a vivaci tarsie, l’artista riflette sulle vicende che appartengono ad una umanità compromessa, quanto sul cuore di una questione che riguarda il rapporto tra gli uomini e Dio. Massimiliano Ponente è il sentimento della natura, il piacere della pittura che traduce in “immagine” la memoria di una particolare visione. Lontano da richiami simbolici l’artista cerca l’avventura dello sguardo attento, la restituzione, non fotografica, ma tutta pittorica, di un “esserci stato”. Impossibile per lui dipingere un bosco o il singolo albero senza averlo visto, ascoltato, percepito nel suo profumo di terra e di aria, di foglie e di fiori. I rami nodosi e contorti di un ulivo, il terreno scosceso, costituiscono una visione quotidiana e semplice, come è facile trovare nelle nostre campagne abruzzesi. Una visione familiare all’artista e per questo a lui tanto più cara. Paola Rattazzi pittrice, illustratrice, grafica di straordinario talento, ci trasmette l’emozione della gioia che vive dentro le immagini dei suoi personaggi, dentro i suoi colori, a volte squillanti, altre soffusi e leggeri, come un foulard di seta, sollevato da una folata di vento. L’infanzia, il gioco, la libertà, così come la delicata attenzione che pone alle piccole cose che trattengono la poesia del mondo, incontrano un linguaggio minimale e pulito che stimola i nostri ricordi e sollecita i nostri pensieri. Come quando, con il naso per aria, vediamo allontanarsi su in alto nel cielo un palloncino colorato. Dove andrà a finire? Scoppierà ma è bello pensare che attraverserà il cielo azzurro di tante città volando con un ritmo lento e costante. Mauro Rea fa rivivere, con grande autonomia, il tema del viaggio dantesco, che è avventura ascetica verso il bene dopo aver conosciuto tutte le nefandezze del mondo. E’ il viaggio dell’uomo antico che ha sete di conoscere il proprio destino. L’idea di una foresta pietrificata, che ci richiama le visionarie sperimentazioni surrealiste di Ernst, sposa la monocromia di un rosso che si collega all’idea del sangue, del sacrificio, del rinnovamento. Penso a Perseo nel suo viaggio verso i freddi luoghi degli Iperborei, nella foresta pietrificata di uomini e donne che avevano avuto l’ardire di guardare in volto la Medusa. Qualcosa di epico e di mostruoso vive nella sua pittura che ha un carattere primitivo, intenso, stimolante. Maurizio Romani, è pittore dello sguardo, di quell’esercizio dell’impossibile che nell’arte diventa una cosa vera. Molto note, oltre le opere calcografiche ed il suo impegno nel versante del Sacro, le sue nature morte contro fondi indistinti, e sempre portatrici di un dato incongruo. Meno note ma non meno suggestive le sue montagne, di intenso respiro, che ricordano le sagome nitide e spigolose del nostro Gran Sasso, laddove si sente l’aria pura e leggera, si coglie la splendida luce di un cielo azzurro e pulito che sembra contrastare con la durezza della pietra. Ma la descrittività minuziosa dell’occhio attento, non deve ingannarci perché, ciò che l’artista mette in scena non è certamente la realtà per la realtà bensì l’interpretazione che su di essa opera la sua mente, invitandoci tacitamente ad accettarne il dato illusivo. Per Leonardo Santoli la pittura è essenzialmente un alfabeto straordinario ed universale, un viaggio dentro le citazioni di simbologie arcaiche, antropologiche, mitiche. Ama le contaminazioni che provengono dalla cultura contemporanea, le discendenze pop di cromie antinaturalistiche, il carattere bidimensionale di una concezione postmoderna della storia, appiattita dall’assenza di ogni prospettiva. La pittura resta il suo sogno impossibile dove tutto ritorna, persino il ricordo lontano della sagoma, cartone da spolvero e giornata lavorativa di un antico maestro dell’affresco o quella di un gigantismo pittorico di matrice novecentesca. E’ un concetto di arte come comunicazione sintetica di un sistema di cui si percepisce tutta la problematicità. Immaginazione, colore, ironia, caratterizzano i lavori di Gianfranco Sergio, un universo di inedite contaminazioni, in cui l’ascendenza Pop, filtrata dall’idea surrealista, si impatta con l’audacia e la visibilità del gusto graffitista e, forse ancor di più, con quello della Sreet art, pervenendo ad una geniale e stimolante risposta, quella con cui l’artista sente di dover controbattere il senso destabilizzante di comunicazioni pubblicitarie aggressive ed esagerate. Immagini fantastiche ed allusive, colori audaci, prospettive da capogiro, vena ironica e dissacrante, si rincorrono nella sua produzione più recente, regalandoci un sorriso o l’inquietudine di un presagio. Il tratto distintivo della pittura di Rocco Simoncini, che sceglie oggetti non particolarmente significativi, un’ insetto, un frutto, una macchina industriale, inquadrati attraverso un taglio di visuale generalmente molto ravvicinato, è quello di mettere a fuoco, una condizione umana, che punta a ribadire, a volte con un certo cinismo, l’ enorme vuoto lasciato dalla dimensione umana nell’area delle emozioni e della perdita dei valori condivisi. Il grande angolo è quello di una indefinita macchina industriale azzurra che sfonda con i suoi bracci di tubi e condotti, tutta la profondità del quadro, rubando aria e spazio al cielo. E qui mi fermo, nell’analisi sintetica offerta sui venticinque artisti scelti per questa IV Edizione del Premio Casoli Pinta. Ritengo che ci sia molta qualità nel loro lavoro. C’è sostanza, impegno, passione. Sono convinta che la riconosciuta validità dei loro contenuti renderà sicuramente difficile il lavoro della Giuria di cui sono parte!